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Storytelling degli alimenti: come il marketing influenza i nostri acquisti

Chi non ha mai sentito la parola storytelling? Ma siamo proprio sicuri di sapere che cosa vuol dire questo termine ormai superabusato?

Lo storytelling è una forma di comunicazione che nasce dall’arte della narrazione, dal raccontare, ma anche di affabulare chi ci ascolta o ci legge. Quell’arte utilizzata abilmente da aziende e agenzie di comunicazione per spingerci ad acquistare alcuni prodotti rispetto ad altri.

In un mondo così interconnesso al concetto di consumo bastano alcuni semplici input per scatenare opinioni discordanti tra i consumatori.

Due semplici esempi. Qual è il vostro primo pensiero quando leggete sull’etichetta di un prodotto la scritta ‘Made in Italy‘ o ‘hamburger vegetale‘?

Storytelling degli alimenti: raccontare la storia dei prodotti  

Il marketing, spiegato semplicemente, è il processo volto ad attirare l’interesse delle persone su un determinato prodotto o servizio.

Alcuni esempi possono riguardare la nomenclatura dei prodotti, il loro colore, o ancora la loro posizione sugli scaffali sui quali cade più facilmente il nostro sguardo.

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Luigi Odello

Tutte strategie volte a influenzare i consumatori, a volte anche inconsapevolmente, nelle loro scelte d’acquisto.

Sebbene i consumatori debbano essere consapevoli di queste strategie di mercato, lo storytelling che ruota intorno alla nomenclatura degli alimenti può essere un valore aggiunto. Per esempio, per raccontare come questi vengono prodotti, in quali territori, perchè sono ritenuti ‘sani‘ o ‘eccellenze‘ .

“Assaggiate questo prodotto e descrivete la storia che racconta. È un semplice esercizio che propongo ai miei studenti”, spiega Luigi Odello, giornalista, enologo e professore di Analisi sensoriale presso le Università di Verona, Udine e Cattolica del Sacro Cuore.

Questo semplice compito ci permette di afferrare un importante messaggio: ogni alimento può raccontare una storia, la sua.

Mc Donald’s e il Made in Italy: un caso di storytelling alimentare

Una linea di panini del colosso Mc Donald’s, celebre catena di fast food, realizzata a quattro mani con il famoso imprenditore italoamericano Joe Bastianich, ha scatenato una vera e propria bufera mediatica.

L’investimento di Mc Donald’s in prodotti italiani sfiora la cifra di 240 milioni all’anno. E gli alimenti in questione sono: formaggio Asiago e Montasio, aceto balsamico di Modena, cipolla rossa di Tropea e mele dell’Alto Adige.

Molti dei quali appartenenti alle categorie DOP (di origine protetta) e IGP (indicazione geografica protetta), per farla breve delle vere e proprie eccellenze del mercato agroalimentare italiano.

Mc Donald’s rappresenta l’italianità, le nostre eccellenze, la nostra biodiversità. La collaborazione con questa multinazionale ha dato riscontro positivo sulla sostenibilità, sul benessere animale e in molti altri settori”, ha dichiarato Ettore Prandini, Presidente nazionale di Coldiretti.

Il Made in Italy, in questo caso, sarebbe sinonimo di prodotti di eccellenza, sostenibili e legati alla tradizione. Un chiaro e lampante messaggio per i consumatori: anche in un fast food si può mangiare sano.

La presa di posizione di Slow Food

Tuttavia, il discorso sembrerebbe esser molto più complesso. C’è chi, infatti, non apprezza affatto questa campagna promozionale, uno storytelling ritenuto puramente ‘di facciata‘.

È il caso di Slow Food, un’associazione no profit che punta a promuovere il diritto al piacere e a un cibo buono, pulito e giusto per tutti, come parte della ricerca della prosperità e della felicità per l’umanità attuale e futura e per l’intera rete del vivente.

Biodiversità, sostenibilità delle produzioni, eccellenze agroalimentari, termini sintetizzati nella dicitura Made in Italy, sono parole che hanno un significato e, pertanto, deve essere rispettato“, commenta Slow Food.

Slow Food si differenzia dall’ideologia che sta alla base dei fast food partendo dal nome stesso, che evidenzia due punti di vista contrapposti.

storytelling alimenti“L’eccellenza del cibo italiano è il frutto di saperi artigianali, culture, competenze diffuse, suoli sani, bellezza e diversità dei paesaggi, produttori che hanno storie da raccontare, che difendono e migliorano i loro territori. Non c’entra nulla con operazioni di marketing per italianizzare, con l’aggiunta di ingredienti locali, una formula gastronomica che rappresenta quanto di più standardizzato l’industria alimentare globale abbia mai concepito. L’italianità va difesa quando è virtuosa“, commenta Slow Food.

La sostenibilità si raggiunge attraverso strade diverse. Attraverso il coraggio di invertire un modello alimentare che sta generando disastri ambientali e sociali, che sta ricacciando i piccoli produttori di qualità ai margini del mercato e minando le fondamenta della sicurezza alimentare per le generazioni presenti e future”, conclude Slow Food.

Uno storytelling che distorce il significato delle parole rischia di confondere ancora di più i cittadini, anziché aiutarli a fare scelte basate sulla consapevolezza delle ricadute sulla salute e l’ambiente.

“Il fatto che le grandi catene sposino la cultura che ci è propria è sicuramente positivo, l’importante è che lo facciano bene, che non sia solo l’acquisizione di un’elemento di immagine“, aggiunge Odello.

Un termine come Made in Italy, infatti, possiede un grande potere dal punto di vista commerciale e, allo stesso tempo, un’enorme responsabilità nei confronti dei consumatori.

Un limone Made in Italy

Immaginatevi un limone, anzi una partita di qualche chilo di limoni, che viene messa in un cuocitore che opera a bassa temperatura per rispettare i principi nutritivi e sensoriali della materia prima. Immaginate che gli aromi siano recuperati durante il processo per aggiungerli alla marmellata, fatta senza l’ausilio di elementi esterni salvo lo zucchero, utilizzando per esempio l’albedo dei frutti per evitare addensanti esogeni. Questo esempio ci fornisce il massimo riflesso del territorio e dell’arte del preparatore. Ogni vasetto sarà un ambasciatore del territorio nel mondo. Molto più, quindi, di un semplice limone cresciuto in Italia.

Per questo motivo occorre conoscere e rispettare la storia degli alimenti e, di conseguenza, anche i termini con cui descriverli e pubblicizzarli.

Gli ‘hamburger vegani’

Tutti noi, sugli scaffali dei supermercati, almeno una volta abbiamo visto prodotti che in etichetta recitavano scritte come ‘hamburger vegani‘, ‘burger vegetale‘, ‘maionese vegana‘ ecc.

La domanda che sorge spontanea è la seguente: è giusto che prodotti considerati dei ‘surrogati’ rispondano a tale denominazione?

A quanto pare la risposta è da parte del Parlamento europeo, almeno per ora. Infatti, le aziende che producono, per esempio, dei burger vegetali, devono semplicemente indicare in etichetta che il prodotto non contiene carne. Nessuna stretta però sulla denominazione degli alimenti stessi.

I produttori sanno bene che possono far leva su questo punto, i quanto i consumatori, specialmente quelli attratti per curiosità o in una fase transitoria per ciò che riguarda la loro dieta personale, sembrerebbero più propensi all’acquisto.

Del resto, parlando di marketing, basta fare un semplice esempio. Comprare un ‘burger vegetale‘ risulta una scelta più sicura e appetibile rispetto a un ‘disco a base di verdure‘.

Tuttavia, non tutti sono d’accordo. O, perlomeno, non appoggiano questa decisione.

“È un tradimento della tradizione e del consumatore. È inutile parlare tanto di promozione dei territori se poi si depauperano dei loro valori generando dei falsi“, afferma Odello.

Infatti, seguendo il filo logico di questo pensiero, questi alimenti vegetariani e vegani farebbero leva sulla fortuna dei loro ‘cugini’ a base di carne. Senza però averne pieno diritto, poichè baluardo di tradizioni e ideologie completamente diverse.

Tuttavia, andando più a fondo, la scelta di chiamare un prodotto ‘hamburger vegano‘ potrebbe essere ancora più complessa rispetto a una semplice strategia di marketing nell’ambito dello storytelling alimentare.

Partiamo dal presupposto che tutti sanno che cosa sia un hamburger. Un ‘hamburger vegano‘, di primo impatto, potrebbe suonare proprio come una provocazione, perchè non si trova la carne laddove un consumatore se la sarebbe aspettata. Ma non solo, l’ideologia vegana si contrappone al consumo di carne. Quindi, un hamburger ribattezzato ‘vegano’ è un nuovo prodotto che colloca questa ideologia all’interno del mondo che si vuole cambiare o dimenticare.

Come nel caso dell’attuale Ministero federale delle finanze di Berlino in Germania che, poco meno di un secolo fa, ospitava la sede dell’aviazione nazista (Luftwaffe). Che si tratti, anche in questo caso, di una strategia di marketing?

 

 

 

 

Foto di Daniel Reche: https://www.pexels.com/it-it/foto/foto-di-hamburger-accanto-a-fuochi-3616956/

Foto di Angele J: https://www.pexels.com/it-it/foto/verdure-e-spezie-assortite-sulla-superficie-del-legno-128402/

 

About Umberto Urbano Ferrero

Umberto Urbano Ferrero, collaboratore - Torinese d’origine, cittadino del mondo per credo. Laureato in Lettere moderne, ama l’arte in tutte le sue forme e viaggia per conoscere il mondo, oltre che se stesso. Umberto è appassionato di sport e Urbano, al contrario di ciò che l’etimologia suggerisce, apprezza la vita a contatto con la natura. Ritiene la curiosità una delle principali qualità in una persona, caratteristica essenziale per guardare il mondo da più angolazioni.

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